Dico sempre che non ci credo. Ma mentre lo dico penso che vorrei crederci.
A me la vita così, quella che si vede e si tocca, soltanto così, è sempre piaciuta il giusto. Poco. Non mi esalta, ecco.
E così cerco quello che non si vede, l’oltre, il miracolo.
Ecco, l’ho detto. Ma non è proprio che ci creda. È solo che vorrei tanto crederci. Anzi, vorrei che i miracoli accadessero sul serio. Non tanti, sennò allora che miracoli sarebbero! Solo quelli giusti, quelli che ogni tanto ci stanno bene. Quelli che servono.
La verità è che mi sa proprio che ho assistito a un miracolo.
Lo dico sottovoce, con il cuore stretto stretto. Perché dirle a voce alta, queste cose, gridarle, ho paura che si squaglino. Allora lo dico sottovoce, me lo dico nella testa.
La storia è questa.
Io odio gli anelli. Gli anelli portati al dito. Li detesto. Sono noiosi, fastidiosi. Un pensiero in più a cui pensare.
Però quello lo portavo. Orgogliosa. Consapevole che quello era l’Anello.
Lo indossavo dal sedici luglio dell’anno scorso, poco più di un anno. E non l’avevo mai tolto.
Se lo tolgo una volta, non me lo metto più!
Allora non lo toglievo. E lui stava lì, d’estate più stretto, adesso un po’ più largo. Ma ci stava. Io ci stavo attenta e lui stava attento a me. Non mi abbandonava.
Anche l’altro sabato lui era con me.
Mentre pulivo era con me. Infilavo la mano nel secchio, strizzavo il cencio, lui era con me.
Lo controllavo. Lo toccavo con la punta del pollice. Che non cadesse, che non scivolasse. Così quando sono andata a gettare la plastica, mentre svuotavo il sacco nella campana mi sono fermata a controllare. E lui era sempre lì. Poi ho fatto un miliardo di altre cose, su e giù per strada, in auto, sul furgone, in quel garage a caricare la roba. Un milione di altre cose.
E ad un certo punto me lo sono scordato. L’ho dimenticato.
Capita.
È successo.
Portavo un sacco pieno di roba. Pesante. Lo portavo per strada e ogni poco lo passavo da una mano all’altra. Era pesante. Sentivo che i lacci di plastica premevano sull’anello e l’anello sul dito.
E poi è successo.
Mi sono fermata. Il sacco ancora in mano. Pesante. E l’ho sentito.
L’anello era scomparso.
Ho sentito la sua assenza. All’improvviso. Come se se ne fosse appena andato.
Lì intorno non c’era. Ho rifatto quella strada cento volte. Quel giorno, i giorni dopo. Ho guardato dovunque, in qualunque stanza, nelle macchine, nel furgone, nel garage. Ho ripercorso i miei passi, vuotato i sacchi della spazzatura, il sacco dell’aspirapolvere. Ho capovolto le scarpe, scosso coperte e abiti, smosso scatole e mobili.
Ma niente. Lui era scomparso.
E dal momento che non riesco a credere che la vita sia soltanto quella che si vede e si tocca, allora quella perdita non era soltanto una perdita materiale. Era qualcosa di più. Ma non soltanto un simbolo. Era qualcosa di più, ancora di più. Era un messaggio. Un terribile messaggio.
Per qualche giorno ho continuato a cercarlo. Con il morale a terra. Con questo pensiero fisso di capire quale fosse quel terribile messaggio.
Poi ho cominciato a raccontarmi storie, un po’ come faccio sempre quando la realtà mi deprime, e mi sono rassegnata, mi sono raccontata tante volte che avevo perso soltanto un anello, e alla fine ci ho creduto e mi sono rassegnata.
A cogliere le olive se ne parlava.
-L’hai ritrovato l’anello?
E così il pensiero tornava e i miei sforzi per cacciarlo riprendevano.
-Ma sei sicura che non ti sia caduto venerdì mentre coglievi le olive da sola?
Magari, pensavo, magari.
Ma venerdì ce l’avevo l’anello. E anche sabato. L’ho perso sabato sera. È sicuro.
Domenica era il primo novembre. Ero in valle con mio padre e mio marito a cogliere le olive. Ad un certo punto il mio babbo si è allontanato perché doveva costruire degli attrezzi per cogliere le olive in un punto difficile.
Abbiamo finito il lavoro, terminato gli olivi in valle, riempito le cassette, quando mi è squillato il cellulare.
Ecco, io non lo so se si chiamano miracoli anche quelli che ti si annunciano per telefono mentre sei in mezzo agli ulivi, in una domenica mattina di mezz’autunno, con il cielo azzurro azzurro e un vento caldo che a chiamarlo tramontana pare di dire una bestemmia.
Mi sono arrampicata su per la collina e quando sono arrivata quasi in cima ho trovato il mio babbo che ancora piangeva. Frignava mentre finiva di costruire quell’attrezzo. Perché nemmeno a lui riusciva di accettarlo per quello che era. Un miracolo. E allora continuava a fare cose vere, reali, urgenti.
Ma piangeva.
E quando con il sorriso che mi esplodeva dal viso gli ho chiesto come avesse fatto a ritrovarlo, mi ha risposto con una vocina acuta, strozzata dall’emozione:
-è mamma che me l’ha detto…
Ecco, loro non si erano arresi. Loro non si sono messi a raccontarsi storie.
-Mamma era convinta che tu l’avessi perso mentre coglievi le olive venerdì
-Ma io sabato ce l’avevo!, ho obiettato decisa. Me lo ricordo.
-L’ho ritrovato nell’ultima cassetta. Era in fondo in fondo, in mezzo a quattro olive che lo circondavano e lo reggevano, ancora attaccate insieme.
Ho visualizzato un anello tenuto insieme da quattro olive. Le sue mani grandi che tentavano di descrivere questa cosa piccola e complessa. E ho sentito immediatamente qualcosa che sfuggiva dalla realtà. Ho sentito che quell’immagine me la sarei girata in testa per tutta la vita, ma che non l’avrei mai capita fino in fondo. Sarebbe stato inutile provarci.
Sacro. Ecco il termine giusto. Quell’immagine sapeva di sacro.

Ho perso la fede.
Mio padre l’ha ritrovata il giorno di Ognissanti in un posto in cui non poteva essere.
Qualsiasi parola è troppo piccola, per chiamarlo.