Ricerca

UnaGrafica

Grafica Scrittura Illustrazione

Tag

storie

Tre fratelli

C’erano una volta tre fratellini. Il primo era nato lentamente nel giorno di mezza estate. Faceva tutto con calma ed estrema precisione. Non aveva parlato finché non era stato sicuro di pronunciare ogni parola perfettamente. E quando disegnava lo faceva per ore, senza mai stancarsi, ripetendo centinaia di arzigogoli tutti uguali e tutti dello stesso colore.

Quando ebbe cinque anni, imparò a leggere e per gioco iniziò a dire le parole soltanto al contrario.

Il secondo era nato rapidamente, come un’esplosione. Aveva cominciato a parlare presto, ma spesso non conosceva le parole e allora riempiva le frasi con curiosi movimenti degli occhi, come se all’improvviso si mettesse a ricamare qualcosa per aria. Disegnava grandi città piene di case di tutte le forme e di tutti i colori e, talvolta, inventava storie a fumetti di una moderna famiglia di conigli.

Il terzo era nato in una settimana. Ogni giorno provava ad uscire, ma non era mai il giorno giusto. Quando finalmente nacque lo fece in un giorno figo, di quelli dove i numeri non te li scordi più. Ma in tutto questo tentennamento, si dimenticò di dotarsi di una vera lingua. Così quando iniziò a parlare, lo fece senza la erre.

Disegnava automobili, camion e pullman pieni di bambini. E per l’autista aveva coniato una parola nuova, guidante, che non era esattamente nuova, ma nessuno l’aveva mai usata come la usava lui.

Con la loro mamma facevano lunghe chiacchierate, ma spesso pareva che ognuno parlasse di un argomento diverso, e alla fine finivano a litigare. Così un giorno la mamma decise che avrebbero parlato tutti per un anno al contrario, un anno soltanto con gli occhi e un anno senza usare la erre.

Alla fine del terzo anno, il più piccolo ritrovò la erre, aiutò il secondo a imparare le parole mancanti e insieme promisero al primo di fare spesso il gioco delle parole al rovescio, se d’ora in avanti, almeno per le conversazioni normali, avesse utilizzato soltanto le parole da diritto.

Capita anche ora che i tre fratellini litighino. Ma adesso che hanno provato ognuno la lingua dell’altro, alla fine succede sempre una cosa speciale: si capiscono e fanno la pace.

Anziani che spazzano

In ogni vecchia bottega c’è un anziano che spazza. In silenzio, lentamente, meticolosamente spazza. Tutto il giorno. Senza fretta, alla velocità che gli compete. Tanto lui (o lei) di corse ne ha già fatte tante nella vita. E ha scalato un mare di montagne, tanto che ora le corse non gli interessano più.

In ogni vecchia bottega c’è un anziano che spazza. No che spazzare sia cosa da poco. O che sia un gesto umile o poco edificante. Provate a lavorare in una bottega sporca, con gli scarti in mezzo ai piedi e la polvere che si alza e si posa ovunque. Spazzare è cosa necessaria per lavorare bene. E l’anziano lo sa. E sa anche che il giovane deve dedicarsi alla creazione, alla libertà, alla produzione. Quindi se c’è un anziano che spazza, lentamente, senza fretta, senza che nessuno lo chieda, il suo gesto sarà uno dei più dignitosi di tutta la bottega.

In ogni vecchia bottega c’è un anziano che spazza. E quando non spazza se ne sta acciambellato su una vecchia seggiola. Come un gatto che dorme. A guardare con occhi vispi quelli che entrano. O a riempire l’aria di gesti antichi come fare la maglia.

In ogni vecchia bottega c’è un anziano che spazza. Sta lì come il bastone dell’equilibrista sul filo, a compensare gli slanci eccessivi dei giovani, le arrabbiature, le paure, le voglie e le cadute. Talvolta regala una carezza ai più piccoli. E quando è l’ora, ripone la scopa, dà la buonanotte a tutti e, in silenzio, scompare.

Qualsiasi parola è troppo piccola, per chiamarlo.

Dico sempre che non ci credo. Ma mentre lo dico penso che vorrei crederci.
A me la vita così, quella che si vede e si tocca, soltanto così, è sempre piaciuta il giusto. Poco. Non mi esalta, ecco.
E così cerco quello che non si vede, l’oltre, il miracolo.
Ecco, l’ho detto. Ma non è proprio che ci creda. È solo che vorrei tanto crederci. Anzi, vorrei che i miracoli accadessero sul serio. Non tanti, sennò allora che miracoli sarebbero! Solo quelli giusti, quelli che ogni tanto ci stanno bene. Quelli che servono.
La verità è che mi sa proprio che ho assistito a un miracolo.
Lo dico sottovoce, con il cuore stretto stretto. Perché dirle a voce alta, queste cose, gridarle, ho paura che si squaglino. Allora lo dico sottovoce, me lo dico nella testa.
La storia è questa.
Io odio gli anelli. Gli anelli portati al dito. Li detesto. Sono noiosi, fastidiosi. Un pensiero in più a cui pensare.
Però quello lo portavo. Orgogliosa. Consapevole che quello era l’Anello.
Lo indossavo dal sedici luglio dell’anno scorso, poco più di un anno. E non l’avevo mai tolto.
Se lo tolgo una volta, non me lo metto più!
Allora non lo toglievo. E lui stava lì, d’estate più stretto, adesso un po’ più largo. Ma ci stava. Io ci stavo attenta e lui stava attento a me. Non mi abbandonava.
Anche l’altro sabato lui era con me.
Mentre pulivo era con me. Infilavo la mano nel secchio, strizzavo il cencio, lui era con me.
Lo controllavo. Lo toccavo con la punta del pollice. Che non cadesse, che non scivolasse. Così quando sono andata a gettare la plastica, mentre svuotavo il sacco nella campana mi sono fermata a controllare. E lui era sempre lì. Poi ho fatto un miliardo di altre cose, su e giù per strada, in auto, sul furgone, in quel garage a caricare la roba. Un milione di altre cose.
E ad un certo punto me lo sono scordato. L’ho dimenticato.
Capita.
È successo.
Portavo un sacco pieno di roba. Pesante. Lo portavo per strada e ogni poco lo passavo da una mano all’altra. Era pesante. Sentivo che i lacci di plastica premevano sull’anello e l’anello sul dito.
E poi è successo.
Mi sono fermata. Il sacco ancora in mano. Pesante. E l’ho sentito.
L’anello era scomparso.
Ho sentito la sua assenza. All’improvviso. Come se se ne fosse appena andato.
Lì intorno non c’era. Ho rifatto quella strada cento volte. Quel giorno, i giorni dopo. Ho guardato dovunque, in qualunque stanza, nelle macchine, nel furgone, nel garage. Ho ripercorso i miei passi, vuotato i sacchi della spazzatura, il sacco dell’aspirapolvere. Ho capovolto le scarpe, scosso coperte e abiti, smosso scatole e mobili.
Ma niente. Lui era scomparso.
E dal momento che non riesco a credere che la vita sia soltanto quella che si vede e si tocca, allora quella perdita non era soltanto una perdita materiale. Era qualcosa di più. Ma non soltanto un simbolo. Era qualcosa di più, ancora di più. Era un messaggio. Un terribile messaggio.
Per qualche giorno ho continuato a cercarlo. Con il morale a terra. Con questo pensiero fisso di capire quale fosse quel terribile messaggio.
Poi ho cominciato a raccontarmi storie, un po’ come faccio sempre quando la realtà mi deprime, e mi sono rassegnata, mi sono raccontata tante volte che avevo perso soltanto un anello, e alla fine ci ho creduto e mi sono rassegnata.
A cogliere le olive se ne parlava.
-L’hai ritrovato l’anello?
E così il pensiero tornava e i miei sforzi per cacciarlo riprendevano.
-Ma sei sicura che non ti sia caduto venerdì mentre coglievi le olive da sola?
Magari, pensavo, magari.
Ma venerdì ce l’avevo l’anello. E anche sabato. L’ho perso sabato sera. È sicuro.
Domenica era il primo novembre. Ero in valle con mio padre e mio marito a cogliere le olive. Ad un certo punto il mio babbo si è allontanato perché doveva costruire degli attrezzi per cogliere le olive in un punto difficile.
Abbiamo finito il lavoro, terminato gli olivi in valle, riempito le cassette, quando mi è squillato il cellulare.
Ecco, io non lo so se si chiamano miracoli anche quelli che ti si annunciano per telefono mentre sei in mezzo agli ulivi, in una domenica mattina di mezz’autunno, con il cielo azzurro azzurro e un vento caldo che a chiamarlo tramontana pare di dire una bestemmia.
Mi sono arrampicata su per la collina e quando sono arrivata quasi in cima ho trovato il mio babbo che ancora piangeva. Frignava mentre finiva di costruire quell’attrezzo. Perché nemmeno a lui riusciva di accettarlo per quello che era. Un miracolo. E allora continuava a fare cose vere, reali, urgenti.
Ma piangeva.
E quando con il sorriso che mi esplodeva dal viso gli ho chiesto come avesse fatto a ritrovarlo, mi ha risposto con una vocina acuta, strozzata dall’emozione:
-è mamma che me l’ha detto…
Ecco, loro non si erano arresi. Loro non si sono messi a raccontarsi storie.
-Mamma era convinta che tu l’avessi perso mentre coglievi le olive venerdì
-Ma io sabato ce l’avevo!, ho obiettato decisa. Me lo ricordo.
-L’ho ritrovato nell’ultima cassetta. Era in fondo in fondo, in mezzo a quattro olive che lo circondavano e lo reggevano, ancora attaccate insieme.
Ho visualizzato un anello tenuto insieme da quattro olive. Le sue mani grandi che tentavano di descrivere questa cosa piccola e complessa. E ho sentito immediatamente qualcosa che sfuggiva dalla realtà. Ho sentito che quell’immagine me la sarei girata in testa per tutta la vita, ma che non l’avrei mai capita fino in fondo. Sarebbe stato inutile provarci.
Sacro. Ecco il termine giusto. Quell’immagine sapeva di sacro.

Ho perso la fede.
Mio padre l’ha ritrovata il giorno di Ognissanti in un posto in cui non poteva essere.
Qualsiasi parola è troppo piccola, per chiamarlo.

Cinque personaggi senza una storia

CHIARA DUERIGHE

Gentile Chiara, ci dispiace ma la tua opera non compare fra i migliori 10 del Premio Nazionale Gli amici di Alessandro. Ti aspettiamo all’edizione 2016. Intanto puoi dare un’occhiata alle opere finaliste!

-Sì, certo, col cazzo!

-Gentile Chiara, scimmiotta. Clicca sul cestino e l’email scompare.

-Fanculo a te. Fanculo a voi.

-Fanculo anche quest’anno.

Si appoggia allo schienale della sedia e sbuffa.

Osserva intorno muovendo solo gli occhi e intanto pensa ancora che la sua storia sia bellissima. Che probabilmente è ancora molto chiusa nel suo cervello e il suo cervello non è abbastanza bravo da indirizzare le giuste parole alle mani. Oppure lungo la via trovano qualche ostacolo. Deve essere un problema di comunicazione interna, ecco di cosa si tratta.

Riapre il browser, si collega al sito del Premio Nazionale Gli amici di Alessandro e con pochi clik si iscrive all’edizione 2016.

-Se non ce la faccio questa volta, smetto di scrivere per sempre. Giuro.

 

COLOMBO RASPINI

Il figlio di Colombo aveva tre anni appena, ma era affamato di lingua italiana nemmeno ne avesse avuti venticinque e una passione viscerale per la materia. Qualsiasi oggetto attirava la sua attenzione e pretendeva di saperne il nome.

-Come si chiama questo, babbo?

-Tavolo

-Come si chiama questo, babbo?

-Specchio

-Come si chiama questo, babbo?

-Naso. Il naso di babbo

Colombo rispondeva a ogni domanda, perché la moglie Aurora, prima di andarsene al di là dell’oceano alla ricerca di se stessa, si era raccomandata di rispondere, che ai bambini si danno sempre e comunque delle risposte, che questa è l’età in cui assimilano più informazioni. E poi da grandi diventano dei geni.

E così lui rispondeva ad ogni domanda. Ma finché si trattava di dirgli il nome di un oggetto, o di una parte del corpo, d’accordo. Ma c’erano sempre anche quelle domande. Quelle a cui non trovava risposta nemmeno lui che era grande:

-Mamma quando torna? Perché è andata via?

No, suo figlio non sarebbe mai diventato un genio.

E poi c’erano quei momenti strani, sempre più frequenti ultimamente, in cui la risposta non arrivava nemmeno se si trattava di dare il nome agli oggetti.

-Come si chiama questo, babbo?, chiese il piccolo Edoardo indicando il corrimano delle scale.

E Colombo si fermò con il bimbetto in braccio. Guardò il corrimano, lo toccò, ma nella sua testa sentì silenzio e vide una palla trasparente e vuota che si allargava, che azzerava ogni rumore e ogni figura.

-Eppure, fece a voce alta, so che è una parola così semplice. Domani Edo, domani babbo te lo dice.

 

ALMA NERI

Lo smartphone sul tavolo cinguettò. Sul display comparve un nuovo messaggio da Alman:

“Sono una stronza”

Non passarono nemmeno tre secondi che il cinguettio si ripeté:

“Fino a ieri mi giravano le palle perché dovevo gettare tutti i miei meravigliosi reggiseni con il ferretto”

“Che invenzione il ferretto”

“Pensavo di averne abusato”

“E invece quei maledetti dolori… sono fottuta Ari, sono marcia. Mica i reggiseni devo buttare. Butteranno i miei seni, merda!”

L’ultimo cinguettio era arrivato con un certo ritardo rispetto agli altri.

Ma comunque nessuno dei cinque segnali acustici venne sentito dalla proprietaria del telefono.

 

ARIANNA SENZAMORE

Nel piccolo appartamento al terzo piano c’era sangue dappertutto. Le finestre spalancate portavano dentro voci allegre di un mattino di primavera, nel centro del paese, in pieno mercato.

Il sangue era scuro. C’era una macchia delle dimensioni di un cocomero sul divano. E il water assomigliava a un’opera d’arte, così schizzato di porpora, a tratti più scura, come se ci avessero sgozzato un agnellino.

Arianna era in mezzo al mercato quando due massaie la videro andar giù, sudata che la pelle le brillava, con quel pancione così basso che sembrava lo stesse trasportando con la sola forza delle braccia. Così tese. Che se non fosse caduta lei, sarebbe caduto lui per terra, ne erano sicure quelle due massaie, ancora prima di guardarla andare giù. Lo sapevano, loro, che quella era una cercaguai.

Ma l’ambulanza fece presto ad arrivare. E anche il bambino.

Il suo ragazzo no, invece. Non arrivò mai.

Preferì non vedere il piccolo.

-è per il tuo bene, Ari… se poi mi affeziono? Se poi mi viene voglia di farlo crescere dai miei…?

 

VASCO ROSSI

Vasco Rossi cantava voglio una vita spericolata camminando per strada in mezzo alla gente. E nessuno gli diceva nulla. Nessuno se ne stupiva, se non i turisti e i forestieri. Che magari erano arrivati fin lì, in quel paesino in collina, in mezzo a un deserto di campi mandati in malora e steppe e pecore a brucare, magari erano arrivati fin lì, lasciando il mare per mezza giornata, soltanto perché qualcuno aveva detto loro:

-Lo conoscete Vasco Rossi? Lo avete mai visto di persona? Andate, andate che ne vale la pena.

Vasco Rossi, quello, aveva vent’anni, a detta di molti. Nell’aspetto era un mix fra James Dean di Gioventù bruciata, con i capelli ingelatinati e le t-shrt bianche, e le movenze del suo omonimo più famoso. Camminava per strada interpretandolo in uno dei suoi videoclip, che non era difficile se già ti sentivi Vasco Rossi, perché Vasco nei videoclip fa sempre se stesso (questo lo pensava Vasco Rossi. Quale dei due non è importante).

Le canzoni le cantava da dio, ma riguardo al video, beh per quello era tutta una questione di fiducia. O di fede in lui, perché era tutto nel suo cervello. Che era piccolo piccolo, a detta di molti, ma se pensate a quanto è vasta la discografia di Vasco, allora forse tanto piccolo piccolo il suo cervello non era.

Quando in mezzo alla folla del mercato del venerdì vide quella donna accasciarsi come una pera cotta (la vide da dietro) fece una cosa che non aveva mai fatto in vita sua. Interruppe le riprese del video, staccò la musica, azzerò la voce e corse da lei.

E non si allontanò nemmeno quando arrivarono i volontari della misericordia. E nemmeno sull’ambulanza, quando quella donna (bella, brutta, giovane o anziana, non l’aveva ancora vista bene in faccia) si mise a urlare, e si sforzava come a volte a lui era capitato per andare di intestino tipo quando aveva mangiato solo pane e patate per una settimana. E una parte di lui avrebbe voluto gridare ai paramedici di darle almeno una padella, invece di stare tutti lì intorno a vedere che cosa sarebbe uscito. Che comunque tanto lontano non sarebbe potuto andare, per dio. Che il tempo di prenderlo e analizzarlo ce l’avrebbero avuto. Che la lasciassero un po’ in pace almeno in questi momenti intimi. O che se stava davvero male come pareva a lui, che facessero qualcosa, invece di stare tutti lì intorno a vedere che cosa sarebbe uscito. Che comunque tanto lontano non sarebbe andato quello che usciva. Per dio.

Ma non disse nulla.

Una mano gli faceva un male cane, perché lei la strizzava. Ma non voleva fargli male. Lo sapeva lui. È che ci sono momenti nella vita in cui c’è bisogno di strizzare una mano. E momenti in cui devi essere pronto a fartela strizzare, per dio. Questo glielo diceva sempre nonna. Lei sì che una vita spericolata ce l’aveva avuta. Lei aveva fatto la guerra.

Poi lei smise di stringere e si buttò all’indietro.

Aveva la faccia tutta rossa, gli occhi iniettati di sangue. Ma sorrideva. Ed era la donna più bella che avesse mai visto. Dopo sua nonna nelle foto da ragazza, naturalmente.

E quello che sentì subito dopo, quel pianto piccolo piccolo, quel frignare timido e insistente, pensò che fosse la canzone più bella che fosse mai stata scritta.

Doveva farglielo sapere al Blasco. Altro che vita spericolata!

Blog su WordPress.com.

Su ↑